Luigi Lambertini
Sergio Zen è un pittore che ama vivere appartato seguendo, assieme
ai colori della sua tavolozza, il filo di pensieri, di meditazioni e di
memorie che poi, attraverso figure e immagini, nasceranno a nuova vita.
La pittura, dunque, come mezzo? No di certo. Detto così sarebbe
restrittivo, persino fuori luogo. Come fine allora? Non c'è dubbio, anche se… Ma è
proprio indispensabile procedere schematicamente?
Perché non saggiare vie meno rigide?
Diciamo allora che i dipinti di Zen costituiscono un vibrante incalzare di realtà
captate ed espresse tela dopo tela. Il che, se vale in
generale, nelle opere degli ultimi decenni è ancora più risonante, frutto di una sottile
riflessione trasformata in un inatteso e felice modo di essere, in altre parole, in
pittura come gioia.
Vicolo Valle, 15. Lo studio, stipato di tele inclinate contro le pareti così da accerchiare
quasi il cavalletto, è al pianterreno di una vecchia e minuta casa un tempo alla periferia
di Valdagno. Poco discosto, una roggia con un antico mulino e più giù, dove la città
termina, la campagna. A prima vista pare che il mondo di Zen sia racchiuso fra queste
mura. Fermiamoci un attimo. Di certo non si tratta di un viaggio sentimentale attorno
alla propria stanza. Almeno non del tutto. E' il caso di chiarire il concetto.
Il mondo che i dipinti di Zen propongono supera i confini del luogo in cui nascono.
Non c'è dubbio. Ma superare non equivale ad
andare oltre ? E' lapalissiano. Però, attenti, c'è un ritorno. E quindi
perché non parlare di un intimo e rifratto periplo che dall' esterno trova qui il
suo approdo? D'accordo?
In prima battuta è indispensabile gettare l'occhio su questa parte del veneto. Ecco
un dolce degradare di colli nell'alternarsi delle colture e degli alberi in ordinate
fila, ecco luci e colori che, nel susseguirsi delle stagioni, da tenui e sfumati si
tramutano in vampe di sonore profondità. Si va così dal verde tenue e da quello più
acceso a rossi infuocati di brace e al nero cupo; si va da spessi impasti d'ocra all'azzurro
variamente modulato sino ai bianchi trionfanti e distesi. Sergio Zen ha, insomma,
preso a piene mani – del resto è figlio di questa terra – dall'affascinante caleidoscopio
che ogni giorno gli si squaderna davanti.
E non se ne discosterà neppure quando sarà l'astrazione a prevalere.
Pittore appartato, dicevo, ma non certo isolato. Tutt'altro. E' sufficiente considerarne
con attenzione i dipinti a qualsiasi periodo appartengano. Anche quelli degli esordi
quando, all'inizio degli anni
Sessanta, superata ormai una prima fase di netta impronta figurativa,
cominciava a guardarsi attorno per individuare i presupposti di quelli che sarebbero
poi stati gli indirizzi del suo lavoro.
Casa di campagna (1961) è una testimonianza eloquente per i riferimenti all'astratto
- concreto del "Gruppo degli Otto" che, nove anni prima, Lionello Venturi aveva presentato
alla Biennale di Venezia.
Il paesaggio, colto in presa diretta, è scandito in crescendo. L'ocra e il verde si
alternano solenni e calmi. Le pennellate, definite e corpose, plasmano piani che s'intersecano.
La realtà, per nulla rinnegata, è come sublimata. Le forme nella loro sintesi sono
al limite dell'astrazione, almeno come punto di partenza e nella pittura
trovano nuova concretezza. Dall'armonia dell'insieme pare proprio che l'artista voglia
accompagnarci oltre.
Lo stesso accade in altri quadri e sto pensando a Paesaggio marino (1963), dipinto
per via di riduzione. Senza rinnegare il rapporto con la natura, l’artista ha creato
un insieme di decantate allusioni. Ne deriva un incalzare di atmosfere. L'assommarsi
di luci, colori e forme sono tali da creare in maniera traslata espressioni di altrettanti
stati d'animo cromatici.
Nonostante sia soltanto all'inizio, Zen ha individuato le premesse di quella che sarà
la sua poetica e con risultati di rilievo.
Dipingere e sperimentare sulla tela non è però sufficiente. Bisogna allargare gli
orizzonti, esplorare il mondo dell'arte. Gli strumenti avuti a disposizione fino a
quel momento, non bastano più e allora, per rendersi conto a fondo del dibattito culturale
e, soprattutto, per valutarne direttamente i risultati, Zen si reca più volte a Venezia
e Milano.
Gli obiettivi. In primo luogo approfondire la conoscenza del passato e così per vagliare
le testimonianze a lui più congeniali trascorre lunghe ore in pinacoteche, chiese
e ovunque ve ne siano di rilievo. Lo stesso vale per le raccolte d'arte contemporanea
che i musei, le Biennali di Venezia, i Premi Marzotto e le principali gallerie private,
soprattutto quelle di punta, possono offrire. Intanto fonda a Valdagno assieme a due
amici pittori una galleria, L'Impronta. Divenuta un concreto punto di riferimento
culturale, attraverso l'organizzazione delle mostre rappresenterà anche un utile strumento
per incontrare alcuni dei maggiori esponenti d'avanguardia del momento o, in alternativa,
per ottenere in prestito opere da qualificati galleristi. Non per
nulla i quadri per la
rassegna
inaugurale, di De Luigi, Fontana, Music, Licata, Santomaso e Vedova, provenivano da
"Il Traghetto" di Venezia.
Nel trascorrere degli anni, i viaggi si moltiplicano con conseguenti scambi d'idee
e d'impressioni dal vivo. Il che, se in linea di massima è sempre utile, per Zen ha
un'importanza basilare. Per lui ciò che conta è lo spessore e la qualità delle opere
e non si tratta soltanto di una questione tecnico-formale. I segreti della pittura
celano quelli dell'anima. Ne sono il veicolo. Bisogna però sapere vagliare, captare
e assaporare. Solo così, decifrandone la lingua, è possibile arricchirsi e contemporaneamente
difendere la propria autonomia; soltanto così si evitano le insidie di ovvie dipendenze
e la banale assunzione di facili modelli.
Ciò che Zen sta a cuore, insomma, è essere informato del divenire dell'arte nelle
sue multiformi espressioni a prescindere dai relativi presupposti ideologici, all'epoca
particolarmente marcati. In altri termini, oltre a dipingere egli svolge un'attenta
indagine storico-critica. Il che è documentato dalle pagine del diario che l'artista
ha tenuto fin da quei lontani anni. Pubblicato nel 1998 con l'eloquente titolo Nessun
giorno è senza colori (Campanotto Editore, Pasian di Prato, Udine), costituisce, pertanto,
un utile punto di riferimento per approfondire la conoscenza del personaggio e del
suo lavoro.
Il percorso seguito, per giungere alla risonanza cromatica e compositiva di questi
ultimi decenni, si è dunque snodato dagli anni Sessanta, quadro dopo quadro, attraverso
molteplici esperienze.
Da qui una concatenazione dialettica, non senza ritorni e relativi recuperi, peraltro
brevi, che gli ha fatto individuare i modi espressivi che lo hanno portato a una felice
maturità.
Per fornire alcune indicazioni di massima vanno menzionate opere come Paesaggio (1964)
e Lungo la strada dell'anno seguante. Nella prima delle due tele le campiture sono
animate da marcate sottolineature e apporti segnici. Nel dipinto seguente l'insieme
di tali cesure e riprese si tramuta in strutture lineari più categoriche. Prevale
un guizzante intersecarsi e un'accentuata proposizione di forme.
Sono cadenze plasticamente composte che costituiscono un punto d'arrivo rispetto alle
successive stesure, sia pure dall'ancora bloccata determinazione formale, presenti
ne la La vigna è verde (1966) e nel Volo notturno (1968). Siamo di fronte al preludio
di un dipinto nodale di Zen, il Notturno (sempre del 1968). Echi e risonanze tra nere
strutture e dense azzurrità affioranti, vanno oltre ad una pura e semplice trascrizione.
C'introducono in una dimensione trasognata e trasognante, pulsante e misteriosa.
La ricerca di Zen prosegue in ogni direzione. Ecco che nuovi rapporti segnici animano
composizioni ormai a larghe zone. Si assiste per giunta ad un dinamismo variamente
articolato che nell’ Incendio notturno n. 2 (1969) punta a una costruttiva verticalità.
Nella serie delle tempere Paesaggio dall'intimo (1970) il segno, invece, diviene gesto
e i colori fluttuano, sovrapponendosi ora timbrici, ora tonali.
Lo stesso vale per l'Estate e altri Paesaggi, sempre del (1970), ai quali succedono
tele dal tratto rapido e netto come Opera N° 32 (1974), Volo azzurro (1975) e, in
principal modo, Verso sera del 1977 che possiamo considerare una sorta di summa. Il
risultato è più mosso e deciso. Pare di essere di fronte all'inseguirsi d'improvvise
folate tanto è concitato di dinamismo che pervade il dipinto. I colori guizzano e
s'incrociano. Si va dal rosso acceso al bianco sino ad un blu più quieto che tende
al grigio, annuncio della notte che incombe.
Non è tutto. Tra la fine degli anni Settanta ai primi del decennio seguente, Zen compie
una decisiva virata con una serie di collages su tela: Venezia Giudecca del 1979,
Per fare un ritratto ad un uccello dello stesso anno, Note di primavera (1980), Presenza
nel tempo (1981) e Mare di luna (1983). Il ritmo non è più dovuto ai segni
e all'orchestrarsi dei colori bensì alla dialettica di larghi spazzi. Il che, considerati
gli esiti futuri del lavoro di Zen, lascia intravedere un'importante anticipazione
di quanto avverrà allorché, abbandonato il collage, Zen tornerà al suo naturale ed
esclusivo dialogo con pennelli e colori.
A questo punto, perché non concederci una parentesi retrospettiva per concludere il
discorso lasciato aperto circa gli interessi culturali dell'artista e le sue
riflessioni sul fare pittura? Si trattava – ricorderete – di un confronto diretto
con l'opera di altri artisti, meglio, di una verifica incentrata negli anni su quanto
gli era più consono per individuare un retroterra all'interno del quale agire. Ebbene,
quali erano i pittori sui quali maggiormente cadeva la sua attenzione? Si può partire
- e lui stesso non ne ha mai fatto mistero- da Afro e Santomaso e quindi proseguire
con Birolli, Pollock, Gorky, De Kooning sino a De Stael e Kline.
E' utile, inoltre, prima di continuare nella disamina che condurrà a quella che negli
ultimi due decenni ha costituito una raffinata apertura verso i liberi cieli
dell'astrazione, è utile, ripeto, fare un passo indietro e valutare, nell'ambito dell'evoluzione
della sua pittura, lo sviluppo del pensiero di Zen. In " Nessun giorno è senza colori"
soffermiamoci su di un'annotazione che risale al 1966.
Dopo aver riferito dei quadri che Gianni De Marco prestò per la prima mostra
alla galleria di Valdagno e delle opere della nuova
figurazione al Premio Marzotto, Zen si sofferma su di una carta dipinta di Scanavino.
"Con i suoi segni nervosi e fitti come un'immagine schermografica – scriveva – mi
fa pensare al dolore e alla vita". Quindi una virata, una dichiarazione illuminante:
" Tutti i segni che faccio sulla tela, tutti i colori che adopero sono sempre presenti
nella natura".
"
Considerati non soltanto i lavori dell'epoca, aveva più di una freccia al suo arco
per una simile affermazione. Ma perché citarla proprio adesso? In primo luogo perché
il collegamento dell'artista con la natura non si è mai interrotto. Ma questo non
è forse stato già rilevato? Certo, ma ciò che qui va messo di nuovo in risalto, è
la complessità del rapporto che ha sempre legato Zen al dato naturale. Anche quando
presentava riferimenti più che concreti – e siamo al nocciolo del problema ,
egli tendeva a situare la sua opera in una posizione, che si potrebbe definire eccentrica
per il fermo rifiuto di qualsiasi assunzione realistica.
Cardine del concetto è racchiuso proprio in quel " sono sempre presenti". In altre
parole, Zen afferma implicitamente che, pur persistendo precisi richiami alle realtà
che più lo coinvolgono, non intende compiere sin troppo ovvie raffigurazioni. Quale
più esplicita dimostrazione se non le opere che seguiranno? Saranno, per giunta, una
graduale anticipazione dei dipinti nei quali prevarrà un'accentuata propensione per
ulteriori traslate astrazioni, risultato di una distesa "dimensione del ricordo, come
pagine in dissolvenza" (1967).
Pure in questa definizione, tratta sempre dal suo diario - ed è opportuno menzionare
anche il precedente richiamo al "lago della memoria" -, c'è una sottigliezza da valutare.
Zen usa il sostantivo "dimensione". Avrebbe potuto farne a
meno, limitandosi solo al
"ricordo". Ma sarebbe stata una contraddizione, poiché stava già puntando a chiare
lettere verso una rarefatta componente memorativa, di certo lontana da una troppo
facile oggettivazione di un ricordo in sé.
I due Notturni del 1968 e del 1971 sono, al riguardo, più che eloquenti. Nel primo
si assiste a un intersecarsi di realtà, che tendendo ad un unicum raggiungono, tramite
una costruita invenzione formale, solenni rifrazioni. Nell'altro quadro il nero, che
nel precedente s'imponeva con plastico vigore, adesso dialoga con toni più soffusi
cedendo il passo a riverberi e ad affioranti chiarori.
In entrambe le opere, il sentimento dell'esistenza di Zen, il suo tradurre memorie
e stadi d'animo con gli strumenti della pittura si dispiega tramite differenti carature
nell'impianto delle tele e per la scelta e l'impiego dei colori. L'effusione cromatica
non è lasciata incondizionatamente libera, ma trattenuta, anzi disciplinata. L'emozione
non deborda mai. Ogni dipinto è frutto di una musicalità che parte da un avvio, che
nasce da un punto focale, da un segno, da un accenno di colore, da un nucleo.
La relazione tra riflessione, tra controllo emozionale e libertà espressiva, che si
manifesterà con equilibrio esemplare nei quadri del periodo a noi più vicino, ha avuto
un positivo contributo dalla breve e intensa parentesi (1979-1981) dedicata quasi
esclusivamente al collage.
Riprendiamo, dunque, il discorso da dove poco fa è stato lasciato in sospeso per considerare
subito la questione sotto il profilo critico. I già menzionati collages (Venezia Giudecca
e il coevo Per fare un ritratto a un uccello (1979), Notte di primavera (1980), Presenza
nel tempo (1981), ecc.) presentano, proprio perché
collages, una
significativa particolarità: la loro calibrata effusione coloristica si abbina, ed
è più che logico, all'individuazione degli elementi appunto costitutivi del collage,
i sottili brani di tessuto che saranno poi applicati. Ne discende una pluralità di
valenze.
In primo luogo c'è un sostanziale spessore cromatico senza che sia stata modificata
l'originaria natura della stoffa (sotto tale aspetto viene da pensare a un'osmosi
tra l'Informale e la Pop, come dire da Burri, al suo tramutare in pittura i più diversi
materiali, a Rauschenberg). Inoltre, è esaltato, proprio dal suo biancore, il raffinato
connubio che la lega alle campiture a olio sia per come il pittore ha seguito l'insieme
del collage, sia per il modo in cui l'ha ritagliata collocandone i vari laceri sul
supporto. I margini sono netti, ma anche irregolari, alla stessa stregua della loro
superficie che, al termine dell'opera, presenterà insistite rugosità di varia dimensione
e foggia.
E' un'esaltazione della precarietà, addirittura dell'effimero? Non in assoluto. C'è
piuttosto il senso transeunte del tempo captato con quiete prese d'atto e, soprattutto,
il piacere di costruire immagini facendo ricorso alla corposa ricchezza del colore
ad olio e alla tattile matericità del sottile tessuto usato.
Stati d'animo e di pensieri liberi di veleggiare, scaturiscono quindi dalla nuova
realtà cui è stato dato vita. Ed è una realtà che si tramuta con musicali riverberi
in un contrappunto di bianchi ora tendenti ad un verde rarefatto e tenue, ora trascoloranti
in soffuse, azzurrità, ora contrastati dal clangore dei neri.
Il senso dell'esistere è stato tradotto in pittura e affidato alla tela non per metterci
di fronte a qualcosa che termina, bensì a ciò che continua. E può essere
di tutto. Possono essere voli
d'uccelli, rapsodie veneziane, brezze primaverili oppure pensieri che migrano nel
tempo e nello spazio.
Conclusa la stagione dei collages Zen ritorna alla pittura. Non si tratta, comunque,
di una frattura radicale. Lo dimostrano Incontro in collina ( 1983), Granada (1986)
e Volo al tramonto (1987). Il dialettico interagire tra il flusso segnico – talvolta
non mancano neppure contorni sfrangiati – e larghe forme geometrizzanti dai bordi
che sembrano ritagliati, è serrato. Ogni quadro ha in sé un rigoroso equilibrio.
Gli influssi dei collages non possono essere negati. C'è, tuttavia, una notevole differenza.
In essi, la cesura dei lembi rendeva concreto il processo ideativo all'atto del suo
divenire, nonostante gli inattesi scarti della stoffa che, non essendo rigida, provocava,
appunto, all'incrociarsi delle lame, risultati per nulla regolari. Altre irregolarità,
legate sempre al caso – il cui attuarsi, d'altronde, era spesso favorito – derivavano
dalla successiva sistemazione dei ritagli.
Nei dipinti il rapporto fra ideazione e traduzione in atto, è, invece, totalmente
legato al linguaggio del colore. Mentre nei collages i lembi e il colore, pur distinti,
si fondono in una somma di desinenze che tali rimangono nel confluire di due differenti
valenze (colore e stoffa), nei quadri vige soltanto la legge della tavolozza.
Il progetto iniziale, meglio, l'idea di massima dalla quale l'artista ha preso le
mosse, si arricchisce anche negli itinerari suggeritigli via via dagli accordi cromatici.
Non c'è la precedente dialettica tra colore-materia (tessuto) e colore dipinto, posti
sullo stesso piano pur essendo distinti.
Il colore e la conseguente forma dell'immagine, hanno un architettonico equilibrio
che l'aplat rende ancor più fermo. Si determina così, tramite l'esplicita giustapposizione
dei piani, la profondità del quadro e, sebbene ogni consueta finzione prospettica
sia stata evitata, il destinatario dell'opera è immediatamente attirato all'interno
del dipinto e coinvolto dalle atmosfere che il pittore ha captato ed espresso.
Come la storia non si scrive soltanto con le date – da tal anno, avviene questo e
nasce un nuovo evo, ecc. – così scegliere un'opera e darle un valore nodale è sempre
discutibile. Ciò non esclude, tuttavia, che a volte una simile chiamata in causa,
sempre che non sia troppo perentoria o strumentale, possa essere utile per meglio
illustrare l'evoluzione di un artista e, nel caso di Zen, la duttilità che lo contraddistingue
nel calibrare la sua ricerca.
Non è quindi una forzatura e nemmeno un azzardo se adesso faccio riferimento a Notte
Andalusa (1989). Nella tela si avvertono, sia pure in nuce, fremiti che lasciano presagire
che i rigori costruiti delle opere precedenti stanno per essere abbandonati assieme
all'aplat. La carica esistenziale e il palpitare dell'insieme, se prima erano riconducibili
a momenti del passato, di lì a poco avranno nuova linfa in un rinnovato lessico.
Zen sta bruciando le tappe con Il muro dei ricordi n° 1 (1990), Rosso incantato (1988)
ed Estate che cresce (1992). Le immagini sul piano formale e dei contenuti pongono
in evidenza ancora più marcata quello che fin dall'inizio è stato per l'artista –
e non è certo la prima volta che lo pongo in risalto – un filo conduttore: esprimere,
attraverso ricordi e riflessioni, i riverberi della vita. I colori e relativi accordi
ne sono il veicolo e questo canto aumenta d'intensità quando le tensioni prevalgono.
Un esempio? Difesa estiva (1994).
La luce, che traspare dal degradare e un attimo dopo dal crescendo dei fiammeggianti
colori che compongono il quadro, non è fine a se stessa, è una delle tante luci dell'esistenza.
Bisogna saperla cogliere e dovrà essere colta pure in altre opere, allorché emozioni
ed esperienze, in stretta unione con l'inseguirsi delle pennellate, risalteranno ulteriormente
all'unisono.
Come in musica l'altezza delle note discende dalla chiave segnata all'inizio o all'interno
del rigo, così ogni dipinto di Zen ha il suo avvio dalla realtà e dal colore che
con susseguenti ritmi, dapprima definiti e quindi sfumati, netti o frastagliati che
siano poco conta, si rinnovano prendendo l'uno dall'altro vigore oppure acquietandosi
in felice armonie. La pittura nasce dalla pittura per la pittura. Per partenogenesi
ecco che dai colori scaturiscono esplorazioni che affondano nell'inconscio. E' una
lunga rapsodia. Ogni quadro propone qualcosa di nuovo. A volte – Chiara presenza n°
2 (1995) – si assiste a un assommarsi di fremiti fra gli echi del cobalto e un improvviso
di bianchi. In Profondo blu (1995), riquadrato da una nera quinta oltre la quale appare
una rapida fiammata, repentine profondità sono ancora più incombenti. Il silenzio
notturno si spalanca alla nostra fantasia.
Altrove – Verso sud (1996) – Un rosso infuocato si adagia in quella che può sembrare
una culla di luce. Il contrasto è forte, ma risponde al lessico di Zen che spesso
giostra con la dialettica degli opposti. Si tenga presente Per un solo giorno (1999),
che lascia apparire una sagoma quadrata all'interno del supporto, a sua volta quadrato.
Uno spazio nello spazio per nulla uniforme. In
alto un diaframma di
rapidi tocchi, blu e neri. Più sotto
un veloce brano che fa da
controcanto. Al centro, verdi dissolvenze che hanno l'odore dell'acqua.
Il dato atmosferico, o per essere più precisi, la percezione della natura, ingloba
di nuovo quello esistenziale. La realtà è restituita da come, e con quanta intensità,
è vissuta dall'artista. Lo stesso vale per Canto notturno (1999) e Dentro la notte
(2000). Le composizioni, tuttavia, presentano delle varianti. Nella prima tutto è
giostrato con ritmi ascendenti; nella seconda si assiste invece alla sovrapposizione
di luci e ombre di diversa provenienza che, potrebbero persino far pensare – anche
se il rischio di essere fraintesi non è piccolo – alla simultaneità degli stati d'animo
cui puntavano i futuristi. Il che – è bene chiarirlo – senza alcuna scomposizione
di forme e di linee di forza, bensì con i caratteri più volte sino a qui messi in
risalto, è riscontrabile, per polivalenti impostazioni in altri dipinti, connotati
sempre da liriche profusioni.
Così avviene in Stagione aperta (2000) ove la rapide follate di colore sono
mosse come canne al vento, oppure in Sera quieta (2002) dalle trasparenti azzurrità
intercalate da bagliori rossi e bianchi oltre i quali si è portati per captare suggestive
rimembranze. Ma altri dipinti incalzano e con sequenze, annotazioni e abbandoni, che
hanno sempre per punto fermo il trascorrere di ore e di momenti nel loro sensuale
dispiegarsi. Ecco Stagione luminosa, avvampante di solarità, assieme all'impetuoso
Passionale, sempre del 2003. Per venire a opere più recenti, cosa dire di Nostalgico
e di Rosso Attivo – entrambi del 2004 – e di Turno invernale (2005) ? Ancora
una volta il colore è vita.
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